venerdì 12 novembre 2010

Dharana

Dharana, dhyana e samadhi sono tre stadi intimamente legati che Patanjali definisce con un unico termine:  Samyama, perché i loro effetti non possono venire menzionati separatamente, essi fanno parte del processo meditativo che ci permette di avere accesso a una intelligenza più vasta e profonda per una conoscenza penetrativa della realtà, diversa da quella che ci possono offrire i nostri sensi e le nostre percezioni normali. 
Samyama è tradotto anche con il termine “convergenza”, infatti letteralmente vuol dire “azione di legare insieme”. Dharana e dhyana nella tradizione dello yoga definiscono alcuni stati della coscienza considerati superiori perché oltrepassano il livello razionale. Patanjali riserva un posto privilegiato a questa valorizzazione delle qualità sovra-razionali della mente umana, dato che ne fa lo scopo riconosciuto della pratica del raja-yoga. Dharana costituisce il primo risultato del pratyahara, la “ritrazione”: l’essere umano dopo essersi sottratto alla dispersione, si concentra su un solo oggetto imparando una prima forma di unità. 
Dharana, o arte di concentrare le energie coscienti  su un punto fisso, ha costituito una delle più grandi scoperte psicologiche dell’antico brahmanesimo e del buddhismo. Gli antichi saggi avevano  sperimentato in questo sforzo cosciente un’immensa potenzialità, non solo per giungere a modificare stati di coscienza, ma anche per risvegliare stati di pace, di gioia, di contentezza e di amore. Essi avevano scoperto che uno sforzo fisico e psichico, effettuato volontariamente, può far nascere dei doni spirituali. E’ questo il mistero della  meditazione. 
Il termine dharana è derivato dalla radice dhr, che significa “tenere”, “tenere insieme”, “sostenere”, su questa stessa radice si è formato il termine dharma, la legge del buon ordine universale. L’idea è quella di legare tutti gli elementi intorno a un punto centrale, in dharma il punto centrale è Brahman o Atman,  in  dharana è la capacità di una persona di mantenere il campo di coscienza attorno a un solo punto. 
Seguendo la via del Raja Yoga il processo meditativo si realizza quando  tutta l’energia della persona entra in un rapporto intenso, vivo e vibrante con l’oggetto della concentrazione. Il percorso che si fa è sempre quello di andare da una percezione più generale, più grossolana, a una più particolare, più sottile, è come stringere le maglie di una rete per vedere la situazione nei dettagli. 
L’assenza di perturbazioni provocate dai sensi, che abbiamo conquistato con pratyahara ci rende interiormente più centrati, più disponibili e  la mente diventa capace di  concentrazione. 
Dharana è tradotto abitualmente come concentrazione volontaria attiva su un oggetto, così infatti la definisce Patanjali. :  
L’attenzione è la localizzazione della mente” (Y.S.1,III°): 
La mente ha acquisito la capacità di mantenersi in un territorio circoscritto, privilegiato, con un livello molto alto di presenza, essere con ciò che siamo, con quello che stiamo facendo, è una richiesta d’essere in un determinato modo,  non si è più soggetti alla fluttuazione mentale, non c’è più dispersione, c’è come una stabilità di pienezza, mi sento uno con quello che sto facendo, non c’è più il problema della distrazione o non distrazione, non devo lottare per fare silenzio. 
Quindi possiamo affermare che dharana è il risultato degli anga precedenti che ci hanno portato a una qualità di presenza intensa, a una concentrazione di tutte le nostre facoltà su una realtà che è diventata nel nostro cammino di purificazione  uno spazio in cui riposare la mente; perché ciò si realizzi è estremamente importante aver curato al massimo una condizione di presenza interiore e di silenzio mentale in asana e pranayama.   
Afferma Vimala che in dharana l’intera coscienza è libera da tutto il movimento del passato, è purificata, stabile, focalizzata nello spazio interiore ed esteriore, avvolta dal vuoto e dalla pace, se questo stato viene mantenuto, allora la mente si sente unificata con il vuoto, con il silenzio, si sperimenta la meditazione: dhyana. 
Il commentatore di Patanjali, Vyasa, enumera i differenti luoghi,(desha) sui quali la mente può concentrarsi: l’ombelico, il loto del cuore, la luce nella testa, la punta del naso, la punta della lingua e alcuni altri dello stesso genere. 
Quindi dharana, come atto volontario di concentrazione, comprende molto varianti, infatti oltre a fissare la propria attenzione su un oggetto esterno  si può fissare su un punto interno del nostro corpo  seguendo la fisiologia del Tantra.   
 
Tecniche per dharana 
 
Gli yogi posteriori a Patanjali hanno indicato una serie di metodi per arrivare a uno stato di intensa concentrazione;  in particolare per le persone che trovano difficile restare in dharana senza un sostegno, si utilizzano dei supporti che possono essere  interni, esterni e intermedi. E’ sempre meglio scegliere i più semplici e neutri, non carichi di riferimenti culturali per favorire l’interruzione del discorso interiore. Gli esercizi preparatori di fissazione dello sguardo su un oggetto per sottrarre la mente dalla distrazione, chiamati trataka, sono molto utili per ottenere buone visualizzazioni. Per “visualizzazione” si deve intendere la facoltà di produrre nello spazio mentale un’immagine quasi fotografica e non il semplice mantenimento di un’idea sulla cosa o vaga immaginazione. 
La concentrazione su supporti interni si pratica di preferenza nell’oscurità e fa ricorso  alla visualizzazione e all’udito: tra i più noti: punti luminosi, centri sottili, ruote turbinanti, suono interiore, luminosità nella testa ecc. La concentrazione sul suono interno, nada, è ampiamente descritta nello Hathayoga-pradipika, mentre la fissazione sulla luminosità della testa viene menzionata negli Yoga sutra sotto il nome di taraka (Y.S.32-33, III°). Le concentrazioni sui centri sottili (chakra) o sulle linee di circolazione delle energie (nadi) appartengono al Kundalini yoga di tradizione tantrica.  
La concentrazione detta “esterna” è adatta a tutti, si pratica su oggetti lontani ed esterni: disco solare al tramonto o all’alba, luna piena, albero, roccia, montagna ecc. 
La concentrazione “intermedia” si ottiene tramite la persistenza visiva di un’immagine. Si tratta di fissare senza battere le palpebre  e fino a che sgorghino le lacrime un punto, un’immagine, uno yantra ecc. collocato davanti a una distanza conveniente e poi chiudere gli occhi lasciando permanere l’immagine residua il più a lungo possibile. Si procede quindi come per la concentrazione interna. 
Alcuni insegnanti suggeriscono di visualizzare qualcosa che ci è gradito, può essere un simbolo, un aspetto della natura in cui ci identifichiamo, uno yantra, un mandala che fa emergere dimensioni e potenzialità non conosciute, non manifeste. Si possono utilizzare questi metodi anche per potenziare la nostra attenzione e sviluppare poteri latenti  della mente con effetti totalmente estranei al cammino evolutivo. 
A questi esercizi si può aggiungere il controllo metodico del passaggio tra lo stato di veglia e quello di sonno, imparare a cogliere il vuoto che esiste nel passaggio. Questo addestramento ci porta progressivamente a cogliere gli intervalli che spesso passano inosservati: tra due periodi, di una sequenza, tra due pensieri, tra due respiri, tra due atti minimi o due sensazioni fuggevoli vi è sempre una pausa, un silenzio, un vuoto, un centro, là brilla la coscienza indifferenziata. 
Quello che è importante per Patanjali non è la tecnica o l’oggetto di concentrazione che si sceglie, ma il poter entrare in uno stato meditativo; l’oggetto scelto, infatti, non deve né ferire, né produrre agitazione e malessere. Comunque, qualunque esso sia,  si tratta sempre“di un viaggio verso l’interno”, di un tempo di unione all’oggetto e di un ritorno all’esterno. Abbiamo visto che la concentrazione si può fare su tantissimi punti, ciò che è essenziale è la sua qualità, l’intensità dell’esserci, perché il cuore della meditazione sta nel comprendere che tutte le tecniche sono solo dei mezzi per raggiungere una certa condizione che possiamo chiamare silenzio, centratura, visione profonda.”

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